Viola Bianchetti da www.finzionimagazine.it 

La biblioteca è il santuario del lettore. Chi di noi bibliofili, di fronte allo spettacolo di migliaia di volumi che occhieggiano invitanti da interminabili scaffali, non si è sentito accolto nella sua vera casa? La biblioteca è un luogo sacro e intimo al tempo stesso: da amare, rispettare, venerare.
Lo sa bene la pantegana Firmino, nata nel seminterrato della libreria Pembroke Books. Il ratto del romanzo di Savage è un vero goloso di pagine: dopo essersene nutrito per sopravvivere all’abbandono materno, si è accorto che i libri sono molto più gustosi da divorare metaforicamente e ha scoperto nella lettura un universo entusiasmante e idilliaco. La libreria salva Firmino dallo squallore di un mondo gretto e meschino, offre conforto al dolore per la sua insignificanza, solitudine, inadeguatezza, rende possibile la fuga in una realtà migliore.
E lo sa altrettanto bene il quindicenne Tamura Kafka, il quale, fuggito di casa, trova ospitalità presso una biblioteca privata. Qui il ragazzo stringe un forte legame con il factotum Oshima e giunge a realizzare il proprio destino nell’incontro con la misteriosa Saeki. La biblioteca è uno spazio dove ritrovare sé stessi e diventare adulti.
Ma non sempre la biblioteca è un luogo positivo e sereno. Infatti ciascun libro può avere un valore inestimabile o nessuna rilevanza, un significato assolutamente benefico o assolutamente malvagio, può essere fonte di conoscenza o di confusione ed ignoranza. E allora la biblioteca, che per sua natura preserva il patrimonio librario nella sua totalità, ha una sua moralità? E’ legittimo voler conoscere ogni cosa oppure ci sono segreti che devono rimanere tali? Ma soprattutto: chi ha la capacità di distinguere cosa va nascosto e cosa va rivelato? Il nome della rosa pone questi interrogativi: qui la biblioteca è la sede di un sapere proibito e oscuro, un labirinto in cui le menti degli uomini si smarriscono nell’inganno e nell’errore, un teatro di delitti e follie.
Ma proprio per il fatto di racchiudere verità e menzogna, bene e male, la biblioteca costituisce una splendida metafora dell’universo stesso. Ne La biblioteca di Babele Borges immagina una «Biblioteca totale», i cui «scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto cioè ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue». Si tratta di un cosmo governato da una rigida legge matematica e allo stesso tempo caotico: il numero degli eventi possibili è enorme ma non infinito, le informazioni si dispiegano per estensioni incommensurabili di tempo e spazio ma alla fine ritornano a ripetersi, la maggior parte dei segni è senza significato o incomprensibile, ma da qualche parte si trova anche la Verità. L’uomo non può che smarrirsi in questa immensità, ma conserva la consapevolezza della presenza di un ordine, di uno schema provvidenziale, e dell’esistenza di una Verità unica e suprema.
Ma le biblioteche non hanno sempre avuto la forma a noi familiare. Nell’antichità il sapere era custodito in un luogo diverso ma altrettanto sicuro e vasto: la prodigiosa memoria degli aedi. I cantori ricordavano e recitavano una quantità enorme di versi, preservando l’intero patrimonio di conoscenze. E oggi? Forse siamo di fronte a qualcosa di simile: il destino della biblioteca è quella di digitalizzarsi e sparire come luogo fisico, così come quello dei libri è di essere letti su supporti informatici e non come tomi cartacei. Ma non per questo essa perderà il suo fascino, anzi. La biblioteca digitale apre prospettive ancora più oniriche ed evocative: un immenso spazio virtuale, più ricco di qualsiasi collezione fisica, dove la mente del lettore può errare libera, dove sono possibili ancora più relazioni, scambi e interpolazioni fra libri e lettori, fra fantasie individuali e collettive, fra autore e pubblico. Pensate a cosa Borges avrebbe potuto vedere in uno scenario simile. Oppure immaginiamolo e creiamolo noi.